martedì 20 ottobre 2015

Mons. Ambrogio De Battista a Uggiate

Nel 1963 ai bambini di seconda elementare, che dovevano compiere 8 anni vennero dati i Sacramenti della Comunione e della Cresima nel breve volgere di una settimana. Il 17 febbraio la Prima Comunione e il 24 febbraio la Cresima. Erano le domeniche di Sessagesima e di Quinquagesima che precedevano la Quaresima e che a Uggiate inauguravano le Quarantore o Giornate Eucaristiche. Prima iniziavano con la domenica di Quinquagesima e terminavano il martedì grasso e a mezzanotte suonava il campanone per ricordare l’inizio de digiuno. Poi in quegli anni vennero anticipate in modo che terminassero la domenica di Quinquagesima, così come si continua ancora oggi.
I bambini della Prima Comunione, classe 1955
L’Arciprete per l’occasione fece dono ai bambini di un libretto di preghiere, con una sua dedica, come si può vedere qui a fianco. Erano le preghiere quotidiane, più i dieci comandamenti e i cinque precetti generali della Chiesa. Preghiere che entrarono nella memoria di quei bambini e vi rimasero fino ad oggi.
 





La Cresima fu amministrata non dal nostro Vescovo ma da un Vescovo missionario, mons. Ambrogio De Battista. Una figura che a noi bambini appariva imponente con quella sua barba lunga. Era nato a Mandello nel 1905, era entrato nel nostro seminario diocesano e diventato prete nel 1928. Fu destinato come vicario a Stazzona, il paese dell’Arciprete don Virginio Sosio e lì ebbero modo di conoscersi. Dieci anni dopo decise di entrare a far parte del PIME e così iniziò la sua esperienza missionaria che vide l’India come sua terra prediletta. Successe al primo vescovo di Bezwada mons. Domenico Grassi (1933-1951), dopo essere stato  missionario in India dal 1932 e vicario generale del Pime dal 1947 al 1951. Come vescovo di Vijayawada (il nome inglese di Bezwada
 è stato cambiato) dimostrò subito le sue capacità e il suo carattere. La diocesi, cresciuta in modo costante ma tumultuoso fin dalla fondazione (1933), chiedeva un organizzatore. De Battista, missionario di prima linea tra i poveri, aveva una mentalità pratica e capace di pianificare: non amava le apparenze, andava al sodo, voleva dai suoi missionari la stessa dedizione che lui metteva nel suo apostolato.
Vijayawada mantenne per un lungo periodo, anche sotto De Battista, il primato delle conversioni fra le diocesi dell’India conquistato nel 1935, quando ebbe 5.506 battesimi di adulti in un solo anno, su un totale di 53.742 in tutte le 58 diocesi dell’India di quel tempo che, come possedimento inglese, comprendeva anche Birmania e Sri Lanka (oggi l’India ha 130 diocesi)! Padre Domenico Vivenzi, vicario generale di De Battista negli ultimi anni del suo episcopato, diceva :
L'Arciprete, Suor Enrichetta, Corrado, io, Fiorenzo Coduri
«Da varie parti dell'India venivano a Vijayawada per studiare il nostro "metodo". In realtà non si trattava di un "metodo", ma di uno spirito. Le direttive che mons. De Battista dava ai suoi missionari erano semplici: esigeva che si facesse vita con il popolo, senza nessun distacco o isolamento. Il missionario deve impegnarsi a fondo per conoscere la lingua, il dialetto locale, gli usi e tradizioni, partecipare alle feste popolari, mangiare con gli altri, ecc. Voleva si visitassero spesso i villaggi: in genere ogni missionario o sacerdote locale ha dai 30 ai 50 villaggi cristiani o con gruppi di cristiani da visitare. Praticamente si è sempre in giro, eccetto in certi periodi dell' anno troppo afosi. Mons. De Battista non voleva che le visite fossero rapidi passaggi il giorno di domenica, come oggi si è tentati di fare con i mezzi di comunicazione più veloci: si doveva stare nei villaggi due-tre giorni, essere sempre a disposizione, ascoltare tutti, dare istruzione religiosa, risolvere casi umani, visitare i malati anche non cristiani.
Ti assicuro che è assai pesante vivere di continuo in mezzo alla gente più povera dell’India, mangiare male e dormire peggio, in mezzo alla povertà, agli odori, alle malattie. Eppure abbiamo visto che questo è il metodo giusto per incarnarci nella loro vita e sensibilità, acquistare la loro fiducia per servirli meglio, sia spiritualmente che in campo sociale. Il popolo capisce che il prete è veramente a sua disposizione ed è l’unico che vive con i più poveri, senza mettere nessuna barriera fra sé e la gente».

«Le autorità civili della regione  hanno più volte ringraziato mons. De Battista per il notevole contributo dato dalla Chiesa allo sviluppo. I nostri piani erano concordati con le autorità e oggi tutti riconoscono che, per la redenzione dei fuori casta e delle basse caste, nessuno nella nostra regione ha fatto tanto come la Chiesa cattolica... Il vescovo ha costruito le scuole e altre opere educative e poi voleva che i più intelligenti di ogni villaggio fossero mandati avanti negli studi e si addossava tutte le spese. È facile immaginare il volume di denaro che questo servizio è costato alla diocesi, però oggi abbiamo decine di medici, avvocati, professori, insegnanti, funzionari di stato, tecnici di ogni genere, uomini politici e sindacalisti, che vengono dai fuori casta. Un fatto assolutamente impensabile mezzo secolo fa. All’università di Vijayawada su 1.900 alunni 320 sono cattolici e nei ‘‘colleges’’ femminili la proporzione è ancora maggiore».
Il vescovo De Battista ha costituito una formidabile équipe direttiva col suo vicario generale mons. Angelo Bianchi (1904-1968), che era chiamato «la sua ombra», nel senso che i due erano perfettamente integrati fra di loro e si completavano bene. Padre Bianchi ha trascorso 41 anni in India, di cui 34 come vicario generale. Padre Leonardo Redaelli ricorda:
«Durante gli episcopati di Grassi e De Battista, padre Bianchi era una figura carismatica eccezionale. I vescovi non facevano nulla senza di lui e anche di fronte al governo rappresentava bene la Chiesa. Aveva un’intelligenza vivace e si intendeva di tutto, di scuole e di catechisti, delle conversioni e di problemi tecnici, di liturgia e di canto. Era autorevole ma anche umile, sapeva servire i due vescovi lavorando dietro le quinte e senza voler apparire. Era molto alla mano e sapeva portare pace tra i missionari e tra i catechisti e maestri, quando nasceva qualche contrasto. Ha saputo attirare i gesuiti per l’‘‘Andhra Loyola College’’ a Vijayawada, facendo tutte le pratiche e ottenendo la terra gratis per l’università cattolica e poi per i due ‘‘colleges’’ delle suore. Allo stesso modo molte opere della diocesi, ospedali, scuole e lebbrosario di Eluru, debbono a lui la loro esistenza. In diocesi di Vijayawada, certamente è stato la personalità più eminente nei suoi anni di missione, senza togliere nulla ai meriti di Grassi e di De Battista».

Il seminario di Nuzvid: 620 ragazzi, 112 sacerdoti
Mons. De Battista tra L'Arciprete e il Sindaco Pugnetti

Quello che stupisce, nell’episcopato di mons. De Battista, è come abbia potuto trovare il personale (soprattutto preti e suore) e il denaro per così tante opere. Continuando una tradizione affermata nelle missioni del Pime, ha chiamato fin dall’inizio nella sua diocesi vari istituti e congregazioni, maschili e femminili. Spinto dall’urgenza del movimento di conversioni, seguì all’inizio l’esempio di mons. Grassi invitando sacerdoti e seminaristi dal Kerala. Il seminario diocesano, iniziato il 13 giugno 1938, era stato chiuso per gli scarsi risultati dei primi anni e la guerra, con i missionari in campo di concentramento; però ha rappresentato «una data memorabile nella storia della Chiesa cattolica in India». È stato il primo seminario per ragazzi paria, allora giudicati non adatti per il sacerdozio.
Mons. De Battista riapre il seminario il 16 luglio 1956 a Gunadala, ma nel dicembre 1957 lo sposta a Nuzvid affidandolo al p. Giovanni Leoncini. Nella sua lettera agli amici in Italia, in occasione dei suoi 50 anni di sacerdozio, p. Leoncini scrive:
«In quarant’anni di vita del seminario di Nuzvid mi hanno accompagnato 620 ragazzi. Quelli che ce l’hanno fatta a raggiungere la meta del sacerdozio sono poco meno del 25%, mentre 129 sono ancora in seminario. Sui 112 sacerdoti che hanno studiato con me, 3 sono diventati vescovi, 14 sono morti (6 di morte accidentale) e 8 si sono spretati (per quanto ne so io, perché alcuni sono sacerdoti in America e non più in contatto con me)».
Nel 1953 mons. De Battista invita nella sua diocesi preti e seminaristi del Kerala. Si appella ai vescovi, gli arrivano 10 seminaristi già maturi, che diventano sacerdoti della diocesi di Vijayawada. A questi ne seguono altri, mentre cresce anche il clero locale di lingua telegu: il primo consacrato da mons. De Battista è del 1953, da una famiglia di antica fede; ma il primo telegu lo consacra il 31 marzo 1964, il secondo nel 1966, quattro nel 1971, ecc. Alla fine degli anni sessanta cessa il reclutamento di preti e seminaristi nel Kerala: ormai la diocesi ha un sufficiente numero di vocazioni locali.
«La nostra diocesi — scrive Leoncini — ha un immenso debito di gratitudine per le diocesi di Palai, Kothamangalam, Changanacherry e Kottayam, che ci hanno dato i migliori doni, i loro figli. Non potremo mai ricompensarli per questo dono».
Non va dimenticato il lavoro dei fratelli del Pime, specie nella scuola tecnico-professionale di Gunadala e nelle costruzioni di chiese, cappelle, case parrocchiali, ecc. Tre vanno ricordati: Carlo Bertoli (fabbro) e Luigi Crippa (falegname), che hanno guidato per lunghi anni la scuola di Gunadala; e Davide Giani, architetto e progettista della maggioranza delle chiese e opere ecclesiali e sociali della diocesi e anche di altre diocesi. Giani aveva saputo raggiungere, nelle sue costruzioni, una felice sintesi fra gli stili della tradizione indiana e i canoni dell’architettura moderna. Per questo era ricercato anche in campo civile in varie parti dell’India, persino dalle massime autorità civili: ha costruito per lo stato e per i privati scuole, teatri, palazzi per uffici e per abitazione.
Come mons. De Battista abbia risolto il problema economico della diocesi di Vijayawada, nei suoi vent’anni di episcopato, è uno dei «misteri» nella vita di questo grande vescovo. Il suo vicario generale mons. Domenico Vivenzi affermava dopo la sua morte che «è un mistero della Provvidenza!». E aggiungeva:
«A dir la verità, noi missionari brontolavamo spesso contro di lui perché ci teneva in povertà assoluta, spremeva da ciascuno di noi tutto quello che poteva: ma abbiamo sempre collaborato perché sapevamo che faceva tutto non per avarizia, ma per realizzare piani di sviluppo veramente coraggiosi. E poi perché lui stesso aiutava tutti quelli che erano veramente in necessità.
Ad esempio, quando ero a Jangareddigudem, un centro di grande importanza civile, avevo programmato un ospedaletto da 50.000 rupie, cioè circa sei milioni di lire, che in India è già una bella somma, specie per me che non avevo nulla! Quando il vescovo venne a visitarmi mi disse: no, questo è un centro troppo importante per un ospedale così piccolo. Costruiscine uno per almeno 100-120 letti... Io conoscevo la sua abitudine di impegnare i padri in opere sociali necessarie, ma superiori alle forze di diversi, che poi dovevano farsi in quattro per coprire spese e debiti. Perciò mi ricordo che dissi subito: ‘‘Va bene, un ospedale di quelle proporzioni ci starebbe bene, ma poi chi paga?’’. Lui si mise a ridere ironicamente, come faceva spesso: ‘‘Tu ubbidisci e costruisci, mi disse, poi la Provvidenza ci penserà’’. E infatti debbo dire che, un po’ io con i miei benefattori in Italia, un po’ i cristiani locali, un po’ il vescovo, l’ospedale è stato pagato».
(dal sito web del PIME)


domenica 26 aprile 2015

25 aprile punto e a capo

Historia magistra vitæ, la storia è maestra di vita, diceva Cicerone, mai come oggi si rivela vera la sua affermazione, quantunque sia smentita dalla retorica che circonda la data del 25 aprile. Viene presentata come il giorno radioso della liberazione da un periodo oscuro di dittatura e di assenza di libertà. Certamente segna la fine del Fascismo come regime di governo, ma ciò non rappresenta tutta la verità. A che prezzo e con che mezzi si è ottenuta la libertà? È un primo interrogativo e ha le sue buone ragioni; poiché se è lecito combattere un regime, non si possono certo usare i metodi violenti che si condannano quando sono esercitati dalla parte avversa. Poi c'è una seconda domanda: che progetto di società ha inteso realizzare il movimento antifascista? O se vogliamo: quale libertà è maturata nel dopo guerra? Perché se oggi siamo convinti di vivere nella piena libertà, allora è inutile continuare il discorso, saremmo di fronte a una cecità intellettuale e culturale.
Uggiate, quando non c'era l'asfalto
Il periodo fascista a Uggiate è racchiuso tra due fatti tragici che però risultano molto istruttivi. Il primo accadde nel 1923, quando il Vescovo costrinse il Prevosto Rumi a dimettersi e don Tam scrive nel Chronicon, pochi anni dopo, di non sapere il motivo, ma probabilmente ne tace per delicatezza e carità. Don Mario Sessa, che fu l'ultimo vicario del Prevosto mons. Tam, mi disse che vi erano contro di lui imputazioni gravissime e me le esplicitò. Fatto sta che quando il Prevosto Rumi lasciò la parrocchia alla chetichella, molti Uggiatesi tra fascisti e signori si scatenarono contro don Sironi che era il Vicario, contro le Suore e le associazioni cattoliche, al punto che don Sironi appena terminata la Messa fu avvertito che i fascisti lo aspettavano fuori dalla chiesa, così potè salvarsi, uscendo dal retro e fuggendo per i campi arrivò a Trevano dal "Faturèla". Tuttavia la sua casa fu messa a soqquadro e gli disfarono tutto quello che trovarono, arrivando addirittura a rompere un crocifisso di gesso che la mia bisnonna Matilde Facchinetti (la Mam Mitilda) recuperò e conservò in casa sua, tanto che feci in tempo anch'io a vederlo. Seguirono a queste prime violenze una serie di attentati contro simboli, come la bandiera dell'Azione Cattolica o come la tipografia del quotidiano "L'Ordine", e contro persone, accusate ingiustamente di ogni misfatto e anche incarcerate. Il clima in paese era talmente torbido e le fazioni tanto agguerrite che avvenivano schiamazzi in chiesa e le celebrazioni erano frequentemente disturbate. Don Tam annota che almeno una domenica Uggiate rimase senza la Messa poiché i preti viciniori avevano tutti paura ad affrontare una situazione così tesa.
Non ci vuole di certo uno storico per capire di chi fosse la colpa di tutto ciò, ne era convinto anche mons. Tam, tanto che lo scrisse nel Chronicon, tuttavia dimostrò una grande capacità di mediatore e di pacificatore, affrontando i fascisti e il Podestà presentatisi per giustificarsi dei loro eccessi, con queste testuali parole: «Per loro norma io non venni per far da giudice istruttore sui torbidi successi nel paese, ma per calmare gli animi e per ristabilire l’ordine e la pace. Se riesco nel mio intento ne ringrazio il Signore, altrimenti non ho che a rivolgermi al Superiore perché mi destini altrove. La mia missione incomincia dal 10 di questo mese (10 novembre 1923), e non devo né voglio interessarmi del passato. E siccome le piaghe più si grattano e più mandano sangue, prego mettere una pietra sul passato, e collaborare di comune accordo per la pace ed il miglior bene dell’avvenire»
Don Sironi approdò a Cabiaglio in Valcuvia e vi rimase fino alla morte. Portò con sé alcuni documenti relativi alla Cassa Rurale e alla Cooperativa di consumo, che vidi di persona in una cartella dell'archivio di quella parrocchia.

un funerale in epoca fascista
L'altro fatto, se possibile, fu ancora più grave. Nei giorni successivi al 25 aprile 1945, un camion con dieci persone a bordo attraversò il paese e si fermò al Punt da la Pàssera, le dieci persone furono immediatamente uccise con raffiche di mitra. Non tutte morirono sul colpo. Testimone di quei momenti fu mio padre Antonio Braga, che mi disse di essere corso a chiamare un prete per dare una benedizione e per soccorrere gli eventuali sopravvissuti. Purtroppo il primo sacerdote incontrato gli rispose che se li avevano uccisi significava che se lo meritavano e si rifiutò di seguirlo, si trovò un altro prete che intervenne subito dopo. Ma non era finita la crudeltà di quell'episodio. I cadaveri furono caricati su un carro e portati al cimitero, alcune donne si avvicinarono al carro insultando e sputando sui cadaveri. Chi erano e perché furono giustiziati in quel modo? Mai nessuno mi dette una risposta. Chissà se almeno a quei disgraziati fu celebrata una Messa, o dedicata una preghiera. È triste pensare che una ricorrenza così solennizzata serva ancora oggi a nascondere le malefatte dei vincitori e a dimenticare alcune vittime, solo perché erano dalla parte sbagliata. Non ho ricordo di alcuna preghiera pubblica per quelle vittime sepolte in una tomba che da bambino m'incuriosiva, perché era più grande delle altre ma non vi era nessun nome e nessuna foto.

Forse aveva ragione il don Tam quando invitava a mettere una pietra sul passato, perché certi fatti sono come le piaghe più si grattano e più mandano sangue. Anche se sono passati tanti anni le idee politiche e gli schieramenti sussistono e i ricordi parziali o addomesticati non fanno altro che fomentare divisioni e rancori.


giovedì 26 marzo 2015

La Settimana Santa: i Vespuritt, ovvero l'Ufficio delle Tenebre

La Settimana Santa è il cuore dell’anno liturgico, ancora oggi è ricca di celebrazioni liturgiche solenni e di devozioni popolari. Tuttavia molti elementi originali della prima cristianità sono stati spazzati via con il primo assaggio di una riforma liturgica che nel tempo si rivelerà devastante. Anche a Uggiate si vivevano i momenti salienti della Passione, Morte e Risurrezione di Gesù con particolare intensità. Certamente c’era bisogno di una riforma per permettere una maggiore comprensione e partecipazione del popolo, ma doveva essere un rinnovamento basato sulla formazione e sulla catechesi liturgica, più che sul cambiamento dei riti. Invece si è abbattuta la furia iconoclasta di chi, imbevuto di ideologia razionalista, credeva di poter buttare tutto ciò che puzzasse di vecchio, proprio come fecero coloro che in quegli anni abbatterono l’oratorio di Maria Bambina, nel quale iniziavano i riti della Settimana Santa con la benedizione dell’ulivo.
Così, ad esempio, proprio la Domenica delle Palme, dopo la benedizione dell’ulivo in Maria Bambina, si svolgeva la processione che, arrivata al portone della chiesa si fermava, mentre alcuni confratelli entravano e chiudevano il portone e cantando o recitando l’inno Gloria, laus, et honor, tibi sit, Rex Christe Redemptor, si alternavano con gli altri rimasti fuori e con il clero. Terminato l’inno il Prevosto batteva con l’asta della croce sul portone che veniva subito aperto per fare entrare la processione. Il rito simboleggiava la resistenza iniziale del popolo giudeo e l’ingresso trionfale di Cristo in Gerusalemme, ma anche la croce trionfale di Cristo che spalanca le porte del cielo, che è causa della nostra Resurrezione. Tutto questo fu abolito con la riforma dei riti della Settimana Santa al tempo di Pio XII, nel 1956, senza alcuna motivazione. Così come fu eliminato dal Passio di quel giorno e dei seguenti il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia, sempre senza una benché minima motivazione. Per fortuna, almeno in questo caso, la successiva riforma del 1969 ha reintegrato la parte tagliata.
Il cambiamento più sostanziale, però è stato quello dello spostamento d’orario delle liturgie più solenni del Triduo pasquale, motivato dal fatto che non erano fedeli  alla cronologia del Vangelo. Quindi la celebrazione della Messa in Cœna Domini, il Giovedì santo, la Messa dei Presantificati (ula Méssa séca, in dialetto) il Venerdì santo e la Veglia del Sabato santo vennero spostate alla sera o al pomeriggio, scombussolando tradizioni secolari, come la Processione del Giovedì santo a Como col S. Crocifisso. Quantunque abbia un fondamento logico il recupero della cronologia reale dei fatti nel Triduo pasquale non si capisce come si sia potuto cassare con un colpo di spugna una tradizione liturgica sopravvissuta per più di un millennio solo per una motivazione che non tocca i fondamenti teologici dei riti. Per di più è la riforma stessa del 1956 a invertire la corrispondenza cronologia del Giovedì santo, quando prevede la Lavanda dei piedi a metà Messa, prima dell’Offertorio, mentre il Vangelo dice chiaramente: «Et cœna facta…» cioè: dopo aver cenato. Nel rito antico, infatti avveniva al termine della Messa e della spogliazione degli altari.
Mons. Giovanni Andrea Tam
Ul por Prevòst Tam
Fatto sta che avendo posticipato alla sera le celebrazioni del Giovedì e del Sabato e al pomeriggio quella del Venerdì, venne completamente abbandonato un rito suggestivo e molto popolare: l’Ufficio delle Tenebre o in dialetto “i Vespuritt”. Era un’ufficiatura che comprendeva le ore canoniche del Mattutino e delle Lodi del Giovedì, del Venerdì e del Sabato santo, che venivano anticipate alla sera precedente, quindi si tenevano il Mercoledì, il Giovedì e il Venerdì santo. Il Mattutino era composto da tre notturni con tre salmi e tre letture (dalle Lamentazioni di Geremia) ciascuno; le Lodi da cinque salmi, il Benedictus e il Miserere. A ogni salmo si spegneva una candela di un candeliere triangolare con quindici candele (a simboleggiare gli undici apostoli e tre donne e Gesù). Terminati i salmi erano spente 14 candele, quella più in alto si lasciava accesa. Durante il Benedictus si spegnevano anche le sei candele dell’altare. Alla ripetizione dell’antifona del Benedictus, Traditor autem, si prendeva l’ultima rimasta e si nascondeva dietro l’altare dalla parte dell’epistola (a destra per chi lo guarda); dopo di che al responsorio Christus factus est, tutti s’inginocchiavano e si recitava sotto voce il Padre nostro e a voce più alta il Miserere, il celebrante concludeva con una preghiera, poi in ginocchio sui gradini dell’altare batteva due o tre colpi con un bastone sulla predella dell’altar maggiore, al che tutti i presenti facevano rumore con quello che avevano in mano: raganelle di vario tipo, tip-e-tapa, e chi non aveva niente toglieva gli zoccoli e li batteva sull’inginocchiatoio del banco. Era un modo per simboleggiare lo strepito fatto dai Giudei all’arresto di Gesù. Certo per i ragazzi era un rito “molto partecipato”, tanto che quando il Prevosto mons. Tam faceva riportare al suo posto la candela nascosta dietro l’altare e finiva così il fracasso nella chiesa, aleggiava una specie di nebbia, tanta era la polvere alzata da tutti quei colpi. 
La gente aveva un’espressione un po’ grossolana per definire quel comportamento tanto inusuale all’interno della chiesa, si diceva, infatti, per indicare la partecipazione a questo rito: “nà a mazzà ul Signur”. Sicuramente sarebbe stata più che utile una catechesi per tali cerimonie, ma un fatto è certo che erano parte di un tessuto popolare che viveva in modo “passionale” i momenti della Passione del Signore, tanto che in alcune località d’Italia, come a Sessa Aurunca, sono proprio i laici a far sopravvivere quello che la Chiesa ufficiale ha ormai dimenticato.

martedì 17 febbraio 2015

Storiche lucciole per lanterne

A volte gli storici compulsando gli antichi documenti si concentrano su uno in particolare, senza verificarne l’autenticità o la correttezza della trascrizione. Così è avvenuto che il povero Prevosto Niccolò Boldoni, della prima metà del ‘500, è stato ridotto allo stato laicale, non dall’autorità ecclesiastica, ma da uno storico locale, basandosi su un documento che, avendolo definito archipresbiter, e in seguito cancellato il titolo e sovrascritto dominus, ne ha dedotto la sua “laicità”e anche perché su altri scritti viene  identificato come venerabilis dominus … prepositus. Purtroppo però, non è posta la questione solo come condizione transitoria, di un giovane ancora senza ordini ecclesiastici, ma in attesa di riceverli, bensì come situazione perdurata per tutto l’incarico. E a supporto di tale strampalata ipotesi viene portata la vicenda di Ippolito II d’Este, succeduto allo zio Ippolito sulla cattedra di Ambrogio, a soli 10 anni, omettendo che, in seguito, non solo venne regolarmente ordinato sacerdote, ma anche vescovo e nominato cardinale. Mentre è facile appurare la biografia del Cardinal Ippolito d’Este, sarebbe un po’ più difficile trovare la reale identità del Prevosto Niccolò Boldoni.
Per fortuna l’Arciprete don Livio, pubblicò sulla rivista Aplanum un articolo riguardante un arbitrato proprio tra il nostro e i canonici residenti, dove viene chiamato chiaramente “presbiterum”, cioè prete e dove gli si impone l’obbligo di celebrare un certo numero di messe, cosa che naturalmente poteva ottemperare solo essendo prete a pieno titolo. Ecco un estratto della pergamena[1].

«NOS Cesar Trivultius Dei et apostolice sedis gratia Episcopus comensis et in hac parte uti arbiter et arbitrator amicabilis compositor et amicus comunis electus per et inter venerabilem dominum presbiterum Nicolaum boldonum prepositum ecclesie Sancti Petri de ogiate comensis diocesis... et venerabiles dominos presbiterum Antonium et presbiterum Philippum ambos de rusconibus canonicos predicte ecclesie...
Visu prius dicto compromisso et electione ac facultate et libertate nobis ex eo attributa per partes predictas sui set dictis nominibus utsupra: et viso quodam instrumento pronuntiamenti seu arbitramenti alias de anno millesimo quingentesimo decimoseptimo lati inter dominos tunc prepositum et quosdam canonicos dicte ecclesie per quod inter cetera declaratum et arbitratum fuerat quod dictus dominus prepositus predicte ecclesie haberet duas voces in capitulo et duplicem portionem distribitionum quottidianorum. Et quod predicti domini canonici unacum ipso domino preposito tenerentur ad rotam singula hebdomada celebrare missas in dicta ecclesia ita tamen quod dominus prepositus teneretur ad duplex onus dicte celebrationis … omni meliori modo via iure causa et forma quibus melius potuimus et possumus pronuntiavimus terminavimus arbitrati et arbitramentati sumus in hunc quem sequitur modum et formam, videlicet:
primo quia cultus divinus alijs rebus preferendus est ordinavimus et ordinamus quod dominus prepositus qui habet curam animarum in predicta ecclesia sancti petri de ogiate teneretur in ea celebrare missam per se ipsum vel vicarium omnibus diebus festivi et illam cantare seu cantari facere in diebus solitis cantari.  …»

E di seguito la traduzione:

«Noi, Cesare Tivulzio, per grazia di Dio e della sede apostolica Vescovo di Como, richiesto per questa controversia quale arbitro e conciliatore amichevole e amico comune tra il venerabile sacerdote sig. Nicolò Boldoni, prevosto della chiesa di san Pietro di Uggiate, diocesi di Como... e i venerabili sacerdoti sig. Antonio Rusca e sig. Filippo Rusca canonici della detta chiesa...
Visto prima il predetto compromesso e la scelta della nostra persona e la facoltà e libertà in esso a noi attribuita dalle parti e per conto delle persone sopra citate; e visto un istrumento di arbitrato concluso, in altra circostanza, nell’anno millecinquecentodiciassette, fra il prevosto di allora e alcuni canonici della detta chiesa, a norma del quale, tra l’altro, era stato deciso che il signor prevosto avesse doppio voto in capitolo e doppia parte nelle distribuzioni quotidiane; che i signori canonici insieme con lo stesso signor prevosto fossero tenuti a turno a celebrare ogni settimana, nella detta chiesa, le messe, in modo tale che al signor prevosto spettasse doppio incarico in tale celebrazione… visto e considerato quanto era di dovere, volendo preferire, per la pace e la concordia delle stesse parti, la via dell’amichevole conciliatore, nel miglior modo possibile abbiamo giudicato e deciso, e ci siamo pronunciati nella forma seguente:
Primo: poiché il culto divino è da anteporre ad ogni altro interesse, abbiamo ordinato e ordiniamo che il signor prevosto, al quale spetta la cura delle anime della predetta chiesa di san Pietro di Uggiate, sarà tenuto, lui stesso, o per mezzo del vicario, a celebrare in essa la Messa tutti i giorni festivi, e a cantarla, o a farla cantare, nei giorni in cui la si deve cantare. …».

Mi pare doveroso restituire non solo il giusto titolo di sacerdote al Prevosto Boldoni, ma anche un po’ di dignità, visto come è stato trattato, mettendone in risalto solo gli aspetti negativi, quasi fosse assetato unicamente di prebende e di benefici per interesse economico. Tanto più che il suo nome è ancora inciso nella pietra di un ingresso posteriore della casa parrocchiale, testimone perlomeno di un suo interesse e di una sua presenza.

Un abbaglio in senso contrario l’ebbero vari storici che se lo tramandarono in più libri e articoli. Si tratta di Gualderico Sescalco, citato come testimone in una sentenza riguardante una causa sorta tra una certa Rigiza e i canonici di San Fedele in Como. La pergamena originale non esiste più, ma una copia la trascrisse don Santo Monti,[2] al quale sfuggi una virgola tra il nome di Gualdericus Sescalcus e præpositus de Cuvi. E poiché subito dopo è riportato come testimone il prevosto di Uggiate, qualcuno ha ipotizzato che il Sescalco ricoprisse le due cariche contemporaneamente. Tuttavia F. Savio, nel suo libro sugli antichi vescovi d’Italia[3], invece, volle distinguere, proprio a causa della virgola, i due personaggi. Effettivamente le numerose citazioni di Gualderico Sescalco in atti di un decennio[4], confermano che fosse un rappresentante civile della città di Como. Addirittura il Rovelli, nella sua storia di Como, lo nomina presente ad un atto di pacificazione con la comunità di Mandello nelle sue funzioni di console di Como, l’atto è del 2 giugno 1167[5], solo 25 giorni prima dell’atto in questione, e i consoli erano per definizione laici! A conferma possiamo aggiungere che i gli altri sacerdoti titolari di una chiesa non sono citati per nome, ma per ufficio, come l’arciprete di Monza e il prevosto di Uggiate, mentre tutti i laici sono chiamati per nome e cognome.
Così gli stessi storici da una parte fanno diventare prete un laico, appunto il console di Como Gualderico Sescalco e dall’altra riducono a semplice laico un prete a tutti gli effetti, cioè il prevosto Niccolò Boldoni. Scherzi della storia o piuttosto della “vista” degli storici.


  





Qui a fianco è riportato il testo del Rovelli circa la lite tra Como e Mandello e l’accordo stipulato alla presenza dei Consoli, tra i quali figura Gualderico Sesascalo (sic) refuso per Sescalco.




[1] APLANUM MCMLXXXIII, P.Livio: Arbitrato del vescovo Cesare Trivulzio tra prevosto e canonici di Uggiate in una pergamena del sec. XVI, pp.157-159
[2] S. Monti: Carte di S. Fedele in Como, Como 1913
[3] Fedele Savio: Gli antichi vescovi d'Italia dalle origini al 1300 descritti per regioni: la Lombardia, Libreria editrice fiorentina, 1929, pag.343: Interfuerunt istae sententiae: Archipresbiter de Modectia, Ardicius Canonicus S. Marie, Gualdericus Sexcalens; Præpositus de Cuvi et Præpositus deOglate... Rogerius et Adam, et Guifredus de Piro,…
[4] Cfr. Claude Campiche, Die Comunalverfassung von Como in 12. und 13. Jahrhundert, Zurigo 1929.
[5] G. Rovelli: Storia di Como, II, Milano 1794,n. 10, pag. 350

martedì 6 gennaio 2015

I Pievani al secondo Sinodo diocesano, 1579

Nelle Pievi antiche della diocesi di Como e in alcune limitrofe il responsabile della cura d’anime e del governo del clero era l’arciprete. Faceva eccezione la diocesi di Milano che aveva invece i prevosti. Secondo l’opinione di alcuni storici[1] con il diffondersi dei collegi canonicali nella diocesi ambrosiana tra l’XI e il XII secolo, l’Arciprete assunse il titolo di Præpositus, come capo del capitolo. Forse per questo motivo le Pievi comensi più vicine a Milano, che ebbero anche periodi di incerta appartenenza a una città o all’altra, adottarono il titolo di prevosto per il Pievano. Infatti troviamo quest’uso già nel XII secolo per Cuvio, Agno, Fino e Uggiate. Tuttavia anche chiese prestigiose della città murata come S. Fedele e S. Donnino avevano  e hanno ancora il prevosto. Una spiegazione si può trovare negli atti del secondo sinodo diocesano. Fu un momento importante per la vita diocesana, perché dopo il Concilio di Trento conclusosi nel 1563 e dopo il primo sinodo svoltosi nel 1565, vi era stata la Visita Apostolica del Vescovo di Vercelli Bonomi, amico e parente di S. Carlo Borromeo, nel 1578. Si trattava di riformare la vita diocesana sulla spinta dell’opera rinnovatrice di S. Carlo. Dunque durante il secondo sinodo, tenutosi dal 3 al 5 settembre 1579, indetto dal Vescovo Gian Antonio Volpi, dopo il saluto e l’introduzione del Vescovo, prese la parola il Prevosto di San Fedele D. Cristoforo Salici[2], il quale nella sua solenne orazione magnificò il ministero sacerdotale, sottolineandone l’origine divina e presentando i gradi della gerarchia quasi come riflesso della Chiesa trionfante. Spiegandone il significato dalla suprema autorità di Pietro fino al semplice prete e agli ordini minori, toccò anche quei ruoli che rientravano nell’organizzazioni delle Pievi. Vi si legge.
«La Chiesa di Cristo ha diversi ordini di sacerdoti. In particolare vi è il Sommo Pontefice, poi i Patriarchi, gli Arcivescovi, i Vescovi e i Sacerdoti o Presbiteri che si dividono in Prevosti, Arcipreti, parroci e semplici sacerdoti. Tale distinzione si può spiegare con un riferimento ai tempi dei pagani. Cosicché i Prevosti che sono a capo di alcuni Canonici e preti, si possono paragonare ai tribuni dei soldati; gli Arcipreti che sono i primi dei preti, si possono intendere come i tribuni del popolo; i Parroci, ai quali è demandata la particolare cura delle anime, s’intendano come avvocati. Tuttavia tutti costoro per il ministero di pascere e di governare il gregge a loro stessi affidato, si chiamano pastori e rettori[3]
Da una tale spiegazione si può dedurre che il Prevosto avesse allora una posizione di maggiore responsabilità e considerazione. Forse si può ritenere una conferma il fatto che nello stesso sinodo, nell’elenco dei prelati, rappresentanti le pievi della diocesi, i primi tre sono proprio i prevosti. Ma ecco l’elenco completo. (i cognomi di incerta traduzione sono lasciati come nell’originale)[4]
1.   D. Francesco Coldirarius, Prevosto della Chiesa di S. Stefano di Fino
2.   D. Andrea Drallus, Prevosto della Chiesa di S. Lorenzo di Cuvio
3.   D. Cressino Pontius, Prevosto della Chiesa di S. Pietro di Uggiate
4.   D. Luigi Torriani, Arciprete della Chiesa di S. Vittore di Balerna
5.   D. Orazio Torriani, Prevosto della Chiesa dei Ss.Cosma e D. di Mendrisio[5]
6.   D. Vincenzo Rezanis, Arciprete della Chiesa di S. Eufemia di Isola
7.   D. Gian Antonio Corti, Arciprete della Chiesa di S. Vincenzo di Gravedona
8.   D. Gian Pietro Molteni, Arciprete della Chiesa di S. Lorenzo di Mandello
9.   D. Gian Pietro de Manzis, Arciprete della Chiesa di S. Stefano di Dongo
10.     D. Guido de Argentis, Arciprete della Chiesa di S. Stefano di Menaggio
11.     Venerabili Frati del Monastero di S. Giovanni in Pedemonte presso Como, Rettori della Chiesa di S. Maria di Rezzonico
12.     D. Leonardo de Brochis, Arciprete della Chiesa di S. Vitale di Riva
13.     D. Bernardino Salici, Arciprete della Chiesa di S. Pietro di Nesso
14.     D. Francesco de Præbonis, Arciprete della Chiesa di S. Stefano di Sorico
15.     D. Gian Antonio de Restitis, da Cadenazzo, Arciprete provvisorio della Chiesa di S. Pietro di Bellinzona
16.     D. Taddeo Dunus, Arciprete della Chiesa di S. Vittore di Locarno
17.     D. Francesco Vastallus, Arciprete della Chiesa di S. Stefano della Valle d’Intelvi
18.     D. Nicola Sala, Prevosto della Chiesa di S. Giovanni Batt. di Agno e per lui D. Battista Pocobellus, suo procuratore
19.     D. Battista Salici, Arciprete della Chiesa di S. Stefano di Lenno
20.     D. Alberto Ponga, Arciprete della Chiesa di S. Giovanni Batt. di Bellagio
21.     D. Gian Pietro Moresinus, Arciprete della Chiesa di S. Lorenzo di Lugano
Non sono rappresentate le Pievi Valchiavennasche e Valtellinesi che si trovavano sotto il dominio dei Grigioni.
Da notare il cognome del Prevosto di Fino, Coldirarius, che è lo stesso del notaio che redige l'atto del 1405, in cui è delegato il Prevosto Pietro de Cottis; un altro segnale delle relazioni tra Milano e le Pievi già appartenenti al contado del Seprio.




[1] Cfr. http://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/schede/200004/
[2] Synodus Diocesana Comensis secunda de anno MDLXXIX, pag.18
[3] Synodus o.c. pagg. 29-30
[4] Synodus o.c. pagg. 46-48
[5] Nel Medioevo Mendrisio faceva parte della Pieve di Balerna.

giovedì 1 gennaio 2015

Aggiornamento della Cronotassi

La cronotassi dei Prevosti di Uggiate è ancora oggi lacunosa. Abbiamo l’elenco cronologico probabilmente completo dal 1405 in avanti, tuttavia mancano all’appello tutti i nominativi del XIV secolo e ne abbiamo solamente tre del XIII e uno per il XII, di cui peraltro non siamo certi. Il primo elenco che ci è pervenuto risale al 1907 all’epoca del Prevosto Porlezza, ma è incompleto e contiene alcune imprecisioni. È stato corretto e ampliato dall’Arciprete don Pierangelo Livio nel volume “A Uggiate, ieri” ‘Catalogo della mostra fotografica allestita in occasione del 250° Anniversario della Chiesa Prepositurale dei Ss. Pietro e Paolo in Uggiate’. Don Pierangelo aveva recuperato il nominativo del Prevosto Giovanni da Casanova, citato nei resoconti della decima papale indetta da Bonifacio VIII. Era una tassa che il Papa richiese a più riprese in tre anni, per far fronte ai gravissimi oneri finanziari che comportava la linea politica ereditata dai suoi predecessori e che egli stesso si era impegnato di continuare. Risulta appena eletto Prevosto nel 1295. In seguito, nel libro edito dal Comune di Uggiate Trevano, l'autore M. Mascetti colma diverse lacune, aggiungendo il primo Prevosto finora, di cui  abbiamo una documentazione, del 1167 e proponendo di identificarlo con Gualderico Sescalco, Prevosto di Cuvio. Tuttavia l'identificazione presenta qualche dubbio dovuto al fatto che il documento citato è stato trascritto in alcune pubblicazioni in modo incompleto. 
Per esempio nel libro Gli antichi vescovi d'Italia dalle origini al 1300 descritti per regioni: la Lombardia” vengono citati come testimoni: Gualdericus Sexcalens, Præpositus de Cuvi et Præpositus de Oglate… Rogerius et Adam, et Guifredus de Piro, et Cavanirius Guncalvi ecc. Bisognerebbe capire cosa nascondono i tre punti dopo Oglate. 

Nel nuovo elenco trova posto anche il vicario generale del Vescovo Uberto, Bregondio della Torre di Mendrisio, nipote del Vescovo Guglielmo della Torre e canonico della Cattedrale.
Nel libro succitato del Comune mancano due nomi importanti che oggi possiamo aggiungere insieme ad una precisazione cronologica. Il primo che ho potuto rintracciare è Giovanni Lavizzari che viene citato in una pergamena della Basilica di San Vittore di Varese, alla data del 2 agosto 1276, per una delega, ricevuta dal Vescovo di Ferrara, Guglielmo, legato pontificio.
Il secondo, di cui ho già trattato, è il Fiammingo Gaspar van Weerbeke che ottiene la nomina quando il Duca Galeazzo Sforza lo chiama a Milano, a cui, però, rinuncia nel 1474 a favore di Agostino Boldoni di Bellano.











Il primo Prevosto che troviamo nel 1400 è Pietro de Cottis, del quale il Mascetti trova la prima citazione in un documento del 1418, ma in realtà è già titolare della Collegiata dal 1405, come risulta in una pergamena, datata 12 marzo 1405, custodita all’Ambrosiana, nel fondo Reschigna, che qui sopra riproduco parzialmente. La presentazione del documento nel regesto dice: 
PIETRO DE COTTIS, PREPOSTO DI S. PIETRO "DE OGIATE" DELLA DIOCESI DI COMO, PER AUTORITA' APOSTOLICA NOMINA PRETE GIOVANNI DE ZERBIS AI CANONICATI DI S. GIOVANNI DI PONTIROLO E DEI SANTI SIRO E MATERNO DI DESIO.” 
Nel dettaglio sopra riprodotto si può leggere la località dove è stata redatta la pergamena e il notaio che l’ha sottoscritta. Il luogo è Milano, nell’abitazione del notaio Ambrogio “de Coldirariis” nella parrocchia di San Sebastiano in Porta Ticinese. In realtà l’atto è preceduto da una bolla papale del 15 novembre 1404, in cui Innocenzo VII incarica il Prevosto di effettuare le nomine riportate nella pergamena successiva.

Qualche decennio più tardi, viene nominato un altro Prevosto già conosciuto come Primo “de Besutio”, mentre nella pergamena a cui qui ci si riferisce , viene chiamato “Primus de Cotis de Besutio”.  Dice il regesto:

“GASPARE DE PAULIS DE SCLORINO (?) DI FILIPPO, GASPARE DE RUSCHONIBUS Q. GIOVANNI, E I PRONOTAI INNOCENZO DE SOLBIATE Q. ANT., GIOV. PIETRO DE MONTE Q. DONATO, E MAFIOLO DE LUCINO Q. FOMAXIO.
FRATE GIOVANNI DE PONTE Q. FRANZINO, DEL MONASTERO DEI PREDICATORI DI S. PIETRO MARTIRE, DICHIARA AVERE PRESSO DI SE' UN LIBRO "NOMINE PICDO", UN SALTERIO ROMANO, E DEI TESSUTI LAVORATI IN ARGENTO, A GARANZIA DI UNA SOMMA DOVUTA DA PRIMO DE COTIS DE BEXUTIO, PREPOSTO DI S. PIETRO "DE OGIATE

Curiosamente la data è ancora il 12 marzo, del 1451. Forse la famiglia de Besutio (da Besozzo paese nell’antica pieve di Brebbia, provincia di Varese, poi divenuto capo pieve) era imparentata con i de Cottis. Qui sopra un particolare della pergamena con il nome del Prevosto.

martedì 16 dicembre 2014

Un Prevosto dalle Fiandre


Tutti i prevosti, recenti o remoti, finora conosciuti provenivano dal territorio limitrofo o, in pochi casi, da località lontane ma sempre all’interno della diocesi o fuori di poco. Per esempio dalla vicina Svizzera sono giunti due membri della famiglia Della Torre o Torriani, quando il Ticino era in parte ancora diocesi di Como, nel 1252 Bregondio che assommava la carica di Vicario generale e di Prevosto di Uggiate e dal 1751 al 1790 Gabriele, entrambi di Mendrisio. Oppure la serie dei prevosti Boldoni originari di Bellano, diocesi di Milano, ma sulle sponde del lago di Como. In un caso, però, ci fu un’eccezione, quando a Milano furono assoldati dei cantori fiamminghi e uno di questi Gaspard Van Weerbeke divenne nel 1498 maestro della cappella ducale. Alcune missive di Galeazzo Sforza parlano di lui in relazione all’assegnazione di vari benefici ecclesiastici. Nel libro edito da Brepols sulla musica alla corte degli Sforza[1], trattando di varie lettere ducali, si nomina il cantore Gaspar Verbech, “provost of the Church of Ogiate, diocese of Como”, come destinatario di ulteriori benefici, senza indicare a quale chiesa e a quale paese attuale si riferisse. Ma in un altro libro[2], si parla di due bolle riguardanti proprio Gaspar Verbeck chiamato precisamente “prepositus ecclesie sancti Petri de Ogiate, Cumane, …”. A questo punto non vi sono più dubbi, si tratta proprio della Chiesa plebana di Uggiate. Anche se altre pubblicazioni[3] traducono una lettera in cui si dice: “Il duca permette al cantore Gaspare de Weerbeke di cedere l’acquisita prepositura di Olgiate Comasco, mediante certa pensione annua, al prete Agostino de’ Boldoni di Bellano.” L’errore è dovuto alla cattiva traduzione di Enrico Motta che scoprì le due lettere riferite al nostro prevosto, e che l’autore del libro sugli Antegnati, D. Muoni data al 1474. Il riferimento ad Agostino Boldoni conferma che si tratta proprio di Uggiate e non di Olgiate (che a quel tempo non era ancora una prepositura), perché il suo nome è presente nella cronotassi dei prevosti plebani di Uggiate.
Ma chi era e da dove proveniva il cantore nonché prevosto Gaspar van Weerbeke? 
Sappiamo che era un sacerdote della diocesi di Tournai[4] nelle Fiandre, attuale Belgio, nato probabilmente a Oudenaarde, dove venne educato, ma poco si sa della sua giovinezza. Probabilmente venne a contatto con Johannes Regis e potrebbe aver studiato con Ockeghem, inoltre è probabile che abbia conosciuto Dufay. Nel 1471 giunse a Milano come cantore assoldato dagli Sforza ed è in questo periodo che ricevette la nomina a prevosto di Uggiate. Dopo una parentesi alla corte papale, ritornò a Milano come maestro di cappella alla corte degli Sforza. Nel 1474 venne autorizzato dal duca a cedere la prepositura al prete Agostino Boldoni di Bellano, dietro compenso di otto ducati l’anno[5][6]. Evidentemente la nomina alla chiesa di Uggiate come ad altre, non era mossa da motivi pastorali, ma economici per il sostentamento dei musici più prestigiosi. Oltretutto il nostro era anche compositore e alcune sue opere sono giunte fino ai nostri giorni. Tuttavia piace pensare che qualche rapporto con Uggiate debba averlo avuto e abbia lasciato una sensibilità musicale, se qualche decennio più tardi, nel 1556, tra le prime spese fatte dal Consorzio dei sacerdoti della pieve di Uggiate, si trova “il libro delle messe in contrappunto e i madrigali di Arcadelt”[7] Sappiamo che la pubblicazione dei primi quattro libri dei madrigali risale al 1539, ma quella del libro delle messe addirittura al 1557 a Parigi, quando era al servizio del cardinale Carlo di Lorena (de Guise), dopo essere stato cantore della Cappella del Papa. Quindi i canonici e i preti della nostra Pieve erano aggiornatissimi riguardo alle ultime novità della musica liturgica. Considerando che pure Arcadelt era un Fiammingo, c’è da rimanerne meravigliati. Certo che poter ascoltare oggi su “You Tube” l’antifona Ave Regina Cœlorum musicata secoli fa e sapere che il compositore è stato, seppur per breve tempo, il nostro prevosto, fa una certa gradevole impressione



[1] P.A. Merkley e L.M. Merkley, “Music and Patronage in the Sforza Court”, Turnhout, Belgium; Brepols, 1999, pag. 29.
[2] M. Ansani e G. Battioni “Camera Apostolica: documenti relativi alle diocesi del ducato di Milano, Unicopli, 1997, pag. 556.
[3] Archivio storico lombardo, vol.10° e D. Muoni “Gli Antegnati organari insigni, della Bibliotheca Musica Bononiensis, 1883, pag.27.
[4] A. Perria “I terribili Sforza (Storie d'amore e di sangue della storia d'Italia)”, vol.1°, Sugar 1969
[5] Archivio storico lombardo, Giornale della Società storica lombarda, serie seconda, volome IV –Anno XIV, Milano,.1887, pag. 212
[6] A. Perria “I terribili Sforza, o.c. vol.2°, pag.129.
[7] APLANUM MCMLXXXIII, P.Livio: Il primo regolamento del «Consorzio» dei sacerdoti della Pieve di Uggiate, p. 144, nota 5