La Settimana Santa è il
cuore dell’anno liturgico, ancora oggi è ricca di celebrazioni liturgiche
solenni e di devozioni popolari. Tuttavia molti elementi originali della prima
cristianità sono stati spazzati via con il primo assaggio di una riforma liturgica
che nel tempo si rivelerà devastante. Anche a Uggiate si vivevano i momenti
salienti della Passione, Morte e Risurrezione di Gesù con particolare
intensità. Certamente c’era bisogno di una riforma per permettere una maggiore
comprensione e partecipazione del popolo, ma doveva essere un rinnovamento
basato sulla formazione e sulla catechesi liturgica, più che sul cambiamento
dei riti. Invece si è abbattuta la furia iconoclasta di chi, imbevuto di
ideologia razionalista, credeva di poter buttare tutto ciò che puzzasse di
vecchio, proprio come fecero coloro che in quegli anni abbatterono l’oratorio
di Maria Bambina, nel quale iniziavano i riti della Settimana Santa con la
benedizione dell’ulivo.
Così, ad esempio, proprio la
Domenica delle Palme, dopo la benedizione dell’ulivo in Maria Bambina, si
svolgeva la processione che, arrivata al portone della chiesa si fermava, mentre
alcuni confratelli entravano e chiudevano il portone e cantando o recitando
l’inno Gloria, laus, et honor, tibi sit,
Rex Christe Redemptor, si alternavano con gli altri rimasti fuori e con il
clero. Terminato l’inno il Prevosto batteva con l’asta della croce sul portone
che veniva subito aperto per fare entrare la processione. Il rito simboleggiava la
resistenza iniziale del popolo giudeo e l’ingresso trionfale di Cristo in
Gerusalemme, ma anche la croce trionfale di Cristo che spalanca le porte del
cielo, che è causa della nostra Resurrezione. Tutto questo fu abolito
con la riforma dei riti della Settimana Santa al tempo di Pio XII, nel 1956,
senza alcuna motivazione. Così come fu eliminato dal Passio di quel giorno e
dei seguenti il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia, sempre senza una
benché minima motivazione. Per fortuna, almeno in questo caso, la successiva
riforma del 1969 ha reintegrato la parte tagliata.
Il cambiamento più sostanziale, però è stato quello
dello spostamento d’orario delle liturgie più solenni del Triduo pasquale,
motivato dal fatto che non erano fedeli
alla cronologia del Vangelo. Quindi la celebrazione della Messa in Cœna
Domini, il Giovedì santo, la Messa dei Presantificati (ula Méssa séca,
in dialetto) il Venerdì santo e la Veglia del Sabato santo vennero spostate
alla sera o al pomeriggio, scombussolando tradizioni secolari, come la
Processione del Giovedì santo a Como col S. Crocifisso. Quantunque abbia un
fondamento logico il recupero della cronologia reale dei fatti nel Triduo
pasquale non si capisce come si sia potuto cassare con un colpo di spugna una
tradizione liturgica sopravvissuta per più di un millennio solo per una
motivazione che non tocca i fondamenti teologici dei riti. Per di più è la
riforma stessa del 1956 a invertire la corrispondenza cronologia del Giovedì
santo, quando prevede la Lavanda dei piedi a metà Messa, prima dell’Offertorio,
mentre il Vangelo dice chiaramente: «Et cœna facta…» cioè: dopo aver cenato.
Nel rito antico, infatti avveniva al termine della Messa e della spogliazione
degli altari.
Mons. Giovanni Andrea Tam Ul por Prevòst Tam |
Fatto sta che avendo posticipato alla sera le
celebrazioni del Giovedì e del Sabato e al pomeriggio quella del Venerdì, venne
completamente abbandonato un rito suggestivo e molto popolare: l’Ufficio delle
Tenebre o in dialetto “i Vespuritt”. Era un’ufficiatura che comprendeva
le ore canoniche del Mattutino e delle Lodi del Giovedì, del Venerdì e del
Sabato santo, che venivano anticipate alla sera precedente, quindi si tenevano
il Mercoledì, il Giovedì e il Venerdì santo. Il Mattutino era composto da tre
notturni con tre salmi e tre letture (dalle Lamentazioni di Geremia) ciascuno;
le Lodi da cinque salmi, il Benedictus e il Miserere. A ogni salmo si spegneva
una candela di un candeliere triangolare con quindici candele (a simboleggiare gli undici apostoli e tre donne e Gesù). Terminati i
salmi erano spente 14 candele, quella più in alto si lasciava accesa. Durante
il Benedictus si spegnevano anche le sei candele dell’altare. Alla ripetizione
dell’antifona del Benedictus, Traditor autem, si prendeva l’ultima
rimasta e si nascondeva dietro l’altare dalla parte dell’epistola (a destra per
chi lo guarda); dopo di che al responsorio Christus factus est, tutti s’inginocchiavano
e si recitava sotto voce il Padre nostro e a voce più alta il Miserere, il
celebrante concludeva con una preghiera, poi in ginocchio sui gradini dell’altare
batteva due o tre colpi con un bastone sulla predella dell’altar maggiore, al
che tutti i presenti facevano rumore con quello che avevano in mano: raganelle
di vario tipo, tip-e-tapa, e chi non aveva niente toglieva gli zoccoli e
li batteva sull’inginocchiatoio del banco. Era un modo per simboleggiare lo
strepito fatto dai Giudei all’arresto di Gesù. Certo per i ragazzi era un rito “molto
partecipato”, tanto che quando il Prevosto mons. Tam faceva riportare al suo
posto la candela nascosta dietro l’altare e finiva così il fracasso nella
chiesa, aleggiava una specie di nebbia, tanta era la polvere alzata da tutti
quei colpi.
La gente aveva un’espressione un po’ grossolana per
definire quel comportamento tanto inusuale all’interno della chiesa, si diceva,
infatti, per indicare la partecipazione a questo rito: “nà a mazzà ul Signur”.
Sicuramente sarebbe stata più che utile una catechesi per tali cerimonie, ma un
fatto è certo che erano parte di un tessuto popolare che viveva in modo “passionale”
i momenti della Passione del Signore, tanto che in alcune località d’Italia,
come a Sessa Aurunca, sono proprio i laici a far sopravvivere quello che la
Chiesa ufficiale ha ormai dimenticato.
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