martedì 20 ottobre 2015

Mons. Ambrogio De Battista a Uggiate

Nel 1963 ai bambini di seconda elementare, che dovevano compiere 8 anni vennero dati i Sacramenti della Comunione e della Cresima nel breve volgere di una settimana. Il 17 febbraio la Prima Comunione e il 24 febbraio la Cresima. Erano le domeniche di Sessagesima e di Quinquagesima che precedevano la Quaresima e che a Uggiate inauguravano le Quarantore o Giornate Eucaristiche. Prima iniziavano con la domenica di Quinquagesima e terminavano il martedì grasso e a mezzanotte suonava il campanone per ricordare l’inizio de digiuno. Poi in quegli anni vennero anticipate in modo che terminassero la domenica di Quinquagesima, così come si continua ancora oggi.
I bambini della Prima Comunione, classe 1955
L’Arciprete per l’occasione fece dono ai bambini di un libretto di preghiere, con una sua dedica, come si può vedere qui a fianco. Erano le preghiere quotidiane, più i dieci comandamenti e i cinque precetti generali della Chiesa. Preghiere che entrarono nella memoria di quei bambini e vi rimasero fino ad oggi.
 





La Cresima fu amministrata non dal nostro Vescovo ma da un Vescovo missionario, mons. Ambrogio De Battista. Una figura che a noi bambini appariva imponente con quella sua barba lunga. Era nato a Mandello nel 1905, era entrato nel nostro seminario diocesano e diventato prete nel 1928. Fu destinato come vicario a Stazzona, il paese dell’Arciprete don Virginio Sosio e lì ebbero modo di conoscersi. Dieci anni dopo decise di entrare a far parte del PIME e così iniziò la sua esperienza missionaria che vide l’India come sua terra prediletta. Successe al primo vescovo di Bezwada mons. Domenico Grassi (1933-1951), dopo essere stato  missionario in India dal 1932 e vicario generale del Pime dal 1947 al 1951. Come vescovo di Vijayawada (il nome inglese di Bezwada
 è stato cambiato) dimostrò subito le sue capacità e il suo carattere. La diocesi, cresciuta in modo costante ma tumultuoso fin dalla fondazione (1933), chiedeva un organizzatore. De Battista, missionario di prima linea tra i poveri, aveva una mentalità pratica e capace di pianificare: non amava le apparenze, andava al sodo, voleva dai suoi missionari la stessa dedizione che lui metteva nel suo apostolato.
Vijayawada mantenne per un lungo periodo, anche sotto De Battista, il primato delle conversioni fra le diocesi dell’India conquistato nel 1935, quando ebbe 5.506 battesimi di adulti in un solo anno, su un totale di 53.742 in tutte le 58 diocesi dell’India di quel tempo che, come possedimento inglese, comprendeva anche Birmania e Sri Lanka (oggi l’India ha 130 diocesi)! Padre Domenico Vivenzi, vicario generale di De Battista negli ultimi anni del suo episcopato, diceva :
L'Arciprete, Suor Enrichetta, Corrado, io, Fiorenzo Coduri
«Da varie parti dell'India venivano a Vijayawada per studiare il nostro "metodo". In realtà non si trattava di un "metodo", ma di uno spirito. Le direttive che mons. De Battista dava ai suoi missionari erano semplici: esigeva che si facesse vita con il popolo, senza nessun distacco o isolamento. Il missionario deve impegnarsi a fondo per conoscere la lingua, il dialetto locale, gli usi e tradizioni, partecipare alle feste popolari, mangiare con gli altri, ecc. Voleva si visitassero spesso i villaggi: in genere ogni missionario o sacerdote locale ha dai 30 ai 50 villaggi cristiani o con gruppi di cristiani da visitare. Praticamente si è sempre in giro, eccetto in certi periodi dell' anno troppo afosi. Mons. De Battista non voleva che le visite fossero rapidi passaggi il giorno di domenica, come oggi si è tentati di fare con i mezzi di comunicazione più veloci: si doveva stare nei villaggi due-tre giorni, essere sempre a disposizione, ascoltare tutti, dare istruzione religiosa, risolvere casi umani, visitare i malati anche non cristiani.
Ti assicuro che è assai pesante vivere di continuo in mezzo alla gente più povera dell’India, mangiare male e dormire peggio, in mezzo alla povertà, agli odori, alle malattie. Eppure abbiamo visto che questo è il metodo giusto per incarnarci nella loro vita e sensibilità, acquistare la loro fiducia per servirli meglio, sia spiritualmente che in campo sociale. Il popolo capisce che il prete è veramente a sua disposizione ed è l’unico che vive con i più poveri, senza mettere nessuna barriera fra sé e la gente».

«Le autorità civili della regione  hanno più volte ringraziato mons. De Battista per il notevole contributo dato dalla Chiesa allo sviluppo. I nostri piani erano concordati con le autorità e oggi tutti riconoscono che, per la redenzione dei fuori casta e delle basse caste, nessuno nella nostra regione ha fatto tanto come la Chiesa cattolica... Il vescovo ha costruito le scuole e altre opere educative e poi voleva che i più intelligenti di ogni villaggio fossero mandati avanti negli studi e si addossava tutte le spese. È facile immaginare il volume di denaro che questo servizio è costato alla diocesi, però oggi abbiamo decine di medici, avvocati, professori, insegnanti, funzionari di stato, tecnici di ogni genere, uomini politici e sindacalisti, che vengono dai fuori casta. Un fatto assolutamente impensabile mezzo secolo fa. All’università di Vijayawada su 1.900 alunni 320 sono cattolici e nei ‘‘colleges’’ femminili la proporzione è ancora maggiore».
Il vescovo De Battista ha costituito una formidabile équipe direttiva col suo vicario generale mons. Angelo Bianchi (1904-1968), che era chiamato «la sua ombra», nel senso che i due erano perfettamente integrati fra di loro e si completavano bene. Padre Bianchi ha trascorso 41 anni in India, di cui 34 come vicario generale. Padre Leonardo Redaelli ricorda:
«Durante gli episcopati di Grassi e De Battista, padre Bianchi era una figura carismatica eccezionale. I vescovi non facevano nulla senza di lui e anche di fronte al governo rappresentava bene la Chiesa. Aveva un’intelligenza vivace e si intendeva di tutto, di scuole e di catechisti, delle conversioni e di problemi tecnici, di liturgia e di canto. Era autorevole ma anche umile, sapeva servire i due vescovi lavorando dietro le quinte e senza voler apparire. Era molto alla mano e sapeva portare pace tra i missionari e tra i catechisti e maestri, quando nasceva qualche contrasto. Ha saputo attirare i gesuiti per l’‘‘Andhra Loyola College’’ a Vijayawada, facendo tutte le pratiche e ottenendo la terra gratis per l’università cattolica e poi per i due ‘‘colleges’’ delle suore. Allo stesso modo molte opere della diocesi, ospedali, scuole e lebbrosario di Eluru, debbono a lui la loro esistenza. In diocesi di Vijayawada, certamente è stato la personalità più eminente nei suoi anni di missione, senza togliere nulla ai meriti di Grassi e di De Battista».

Il seminario di Nuzvid: 620 ragazzi, 112 sacerdoti
Mons. De Battista tra L'Arciprete e il Sindaco Pugnetti

Quello che stupisce, nell’episcopato di mons. De Battista, è come abbia potuto trovare il personale (soprattutto preti e suore) e il denaro per così tante opere. Continuando una tradizione affermata nelle missioni del Pime, ha chiamato fin dall’inizio nella sua diocesi vari istituti e congregazioni, maschili e femminili. Spinto dall’urgenza del movimento di conversioni, seguì all’inizio l’esempio di mons. Grassi invitando sacerdoti e seminaristi dal Kerala. Il seminario diocesano, iniziato il 13 giugno 1938, era stato chiuso per gli scarsi risultati dei primi anni e la guerra, con i missionari in campo di concentramento; però ha rappresentato «una data memorabile nella storia della Chiesa cattolica in India». È stato il primo seminario per ragazzi paria, allora giudicati non adatti per il sacerdozio.
Mons. De Battista riapre il seminario il 16 luglio 1956 a Gunadala, ma nel dicembre 1957 lo sposta a Nuzvid affidandolo al p. Giovanni Leoncini. Nella sua lettera agli amici in Italia, in occasione dei suoi 50 anni di sacerdozio, p. Leoncini scrive:
«In quarant’anni di vita del seminario di Nuzvid mi hanno accompagnato 620 ragazzi. Quelli che ce l’hanno fatta a raggiungere la meta del sacerdozio sono poco meno del 25%, mentre 129 sono ancora in seminario. Sui 112 sacerdoti che hanno studiato con me, 3 sono diventati vescovi, 14 sono morti (6 di morte accidentale) e 8 si sono spretati (per quanto ne so io, perché alcuni sono sacerdoti in America e non più in contatto con me)».
Nel 1953 mons. De Battista invita nella sua diocesi preti e seminaristi del Kerala. Si appella ai vescovi, gli arrivano 10 seminaristi già maturi, che diventano sacerdoti della diocesi di Vijayawada. A questi ne seguono altri, mentre cresce anche il clero locale di lingua telegu: il primo consacrato da mons. De Battista è del 1953, da una famiglia di antica fede; ma il primo telegu lo consacra il 31 marzo 1964, il secondo nel 1966, quattro nel 1971, ecc. Alla fine degli anni sessanta cessa il reclutamento di preti e seminaristi nel Kerala: ormai la diocesi ha un sufficiente numero di vocazioni locali.
«La nostra diocesi — scrive Leoncini — ha un immenso debito di gratitudine per le diocesi di Palai, Kothamangalam, Changanacherry e Kottayam, che ci hanno dato i migliori doni, i loro figli. Non potremo mai ricompensarli per questo dono».
Non va dimenticato il lavoro dei fratelli del Pime, specie nella scuola tecnico-professionale di Gunadala e nelle costruzioni di chiese, cappelle, case parrocchiali, ecc. Tre vanno ricordati: Carlo Bertoli (fabbro) e Luigi Crippa (falegname), che hanno guidato per lunghi anni la scuola di Gunadala; e Davide Giani, architetto e progettista della maggioranza delle chiese e opere ecclesiali e sociali della diocesi e anche di altre diocesi. Giani aveva saputo raggiungere, nelle sue costruzioni, una felice sintesi fra gli stili della tradizione indiana e i canoni dell’architettura moderna. Per questo era ricercato anche in campo civile in varie parti dell’India, persino dalle massime autorità civili: ha costruito per lo stato e per i privati scuole, teatri, palazzi per uffici e per abitazione.
Come mons. De Battista abbia risolto il problema economico della diocesi di Vijayawada, nei suoi vent’anni di episcopato, è uno dei «misteri» nella vita di questo grande vescovo. Il suo vicario generale mons. Domenico Vivenzi affermava dopo la sua morte che «è un mistero della Provvidenza!». E aggiungeva:
«A dir la verità, noi missionari brontolavamo spesso contro di lui perché ci teneva in povertà assoluta, spremeva da ciascuno di noi tutto quello che poteva: ma abbiamo sempre collaborato perché sapevamo che faceva tutto non per avarizia, ma per realizzare piani di sviluppo veramente coraggiosi. E poi perché lui stesso aiutava tutti quelli che erano veramente in necessità.
Ad esempio, quando ero a Jangareddigudem, un centro di grande importanza civile, avevo programmato un ospedaletto da 50.000 rupie, cioè circa sei milioni di lire, che in India è già una bella somma, specie per me che non avevo nulla! Quando il vescovo venne a visitarmi mi disse: no, questo è un centro troppo importante per un ospedale così piccolo. Costruiscine uno per almeno 100-120 letti... Io conoscevo la sua abitudine di impegnare i padri in opere sociali necessarie, ma superiori alle forze di diversi, che poi dovevano farsi in quattro per coprire spese e debiti. Perciò mi ricordo che dissi subito: ‘‘Va bene, un ospedale di quelle proporzioni ci starebbe bene, ma poi chi paga?’’. Lui si mise a ridere ironicamente, come faceva spesso: ‘‘Tu ubbidisci e costruisci, mi disse, poi la Provvidenza ci penserà’’. E infatti debbo dire che, un po’ io con i miei benefattori in Italia, un po’ i cristiani locali, un po’ il vescovo, l’ospedale è stato pagato».
(dal sito web del PIME)


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